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Somnium Veneris - UTE Acquaviva delle Fonti

Anno Accadenico 2023/24
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Somnium Veneris

Direttamente dai corsi
SOMNIUM VENERIS  del Prof. Nicola Troiani.

Venere addormentata è un olio su tela. Databile tra il 1507 e il 1510. È custodito a Dresda, nella Gemäldegalerie Alte Meister: scampò al terribile bombardamento effettuato dagli alleati fra il 13 e il 15 febbraio 1945 e successivamente alla piena dell’Elba dell’agosto 2002.
Venere è dolcemente addormentata su un letto che si indovina soffice e tiepido. Descritto in questo modo, il soggetto del quadro appare decisamente ‘normale’. In realtà, poco al di sotto della superficie figurativa affiorano diverse contraddizioni. Intanto, Venere è a letto (su un letto improvvisato), completamente nuda, ma al tempo stesso è all’aperto, il suo corpo meraviglioso è adagiato su un candido lenzuolo che a sua volta è poggiato per terra su un manto erboso, ed è esposto all’aria. Se vogliamo sottilizzare, il paesaggio che circonda la dea addormentata è un bel paesaggio chiaro e diurno, anziché buio e notturno come forse dovrebbe essere. D’altronde, il sonno e l’abbandono che ne consegue non impedisce a Venere di coprirsi la vulva con la mano sinistra. E ancora: il paesaggio è avvolto nella caligine estiva, ma i toni di colore sono autunnali. Insomma, non solo la figura stona un po’ nell’ambiente. Ma, anche, figura e ambiente sono elementi in sé stessi contraddittori.
Insomma, la conclamata levigatezza dell’opera in quanto immagine, la fluente armonia tra le sue parti, si frantuma del tutto se il testo è sottoposto ad una analisi anche poco ravvicinata. Il che ispira un’ipotesi. Non sarà stato un errore l’aver cercato nei quadri di Giorgione l’unità e l’armonia a tutti i costi?
In ogni caso, la più vistosa, ed anche la più profonda, contraddizione è proprio nella figura di Venere. Intanto, la dea ha gli occhi chiusi, e questo è già un dettaglio significativo: infatti, da Botticelli in poi, Venere o Afrodite è sempre rappresentata ben desta, attenta, vigile, e non soltanto con Marte, ma anche con Adone.
                        D’altronde, la posa da «bella addormentata» è così seducente che rischia di far dimenticare un’altra osservazione: la Venere di Giorgione è figurata nella stessa postura di Marte addormentato nella tavola di Botticelli che si ammira a Londra (National Gallery). Cioè: nel quadro di Giorgione vediamo Venere sicuramente, ma anche – come soggetto che traluce al di sotto della sua immagine – Marte! E Marte e Venere da sempre (magari anche dallo stesso Lucrezio[1]) sono i due poli di una totalità per così dire universale, pace e guerra, amore e morte, piacere e dovere.
Orbene, Venere e Marte in qualità di pianeti sovrintendono i cieli III e V del Paradiso dantesco, che sono per l’appunto il cielo degli spiriti amanti e il cielo degli spiriti combattenti. Nel III cielo Dante incontra Carlo Martello (VIII 31-148 e IX 1-12), figlio di Carlo II d’Angiò e di Maria d’Ungheria, nasce nel 1271. Nel marzo 1294, durante un viaggio in Toscana compiuto per incontrare il padre Carlo II (lo zoppo) conosce Dante e stringe amicizia con lui. Infatti, rivedendolo in Paradiso gli suggerisce il cielo in cui si trova citandogli il primo verso della canzone Voi che ‘ntendendo ’l terzo ciel movete (VIII 37). Dopo di lui Cunizza da Romano, sorella del più noto (famigerato) Ezzelino, il crudele signore di Treviso: Cunizza, un tempo donna spregiudicata, amante di Sordello da Goito, si ravvede sinceramente e giunge a indirizzare la passione, la naturale esuberanza del suo carattere, ad un amore più alto e puro degli amori terreni, guadagnandosi in questo modo l‘eterna beatitudine. Subito dopo Dante incontra Folchetto da Marsiglia, (IX 67-108ss), apprezzato poeta provenzale, poi divenuto vescovo di Tolosa, sinistramente attivo, al fianco di Simone IV di Montfort e san Domenico, nelle crociate contro gli Albigesi e i Catari. E accanto a lui c’è Raab (IX 109-126), una delle più belle, soavi figure femminili della Bibbia, la prostituta buona che aiutò Giosue nell’assedio di Gerico; da lei discenderà Davide, e quindi Cristo (gs 2 1-23 e mt 1 5-6). I canti XIV e XVIII sono occupati dalla presentazione del cielo, di Marte, V, il cielo degli spiriti combattenti. Tra questi spiccano Carlo Magno e Cacciaguida[2].
Non ha alcun senso nascondere il disagio di rivedere in Paradiso persone come Carlo Martello, Cunizza, Folchetto. Di primo acchito viene da domandarsi se era tanto difficile trovare gente migliore nell’Europa del secolo XIV. Poi, riflettendo, si fa strada il sospetto che la nostra perplessità non sia dissimile dal senso di superiorità che nutre una signora della Milano bene dell’800 verso persone non altrettanto vicine a Dio come è lei[3].
Il paesaggio che circonda la Dea è fatto di elementi naturali, per così dire tradizionali e facilmente riconducibili all’acqua, all’aria, al fuoco e alla terra (possiamo quindi ammirare il cielo azzurro, un ampio tratto fluviale, il morbido tappeto d’erba su cui è adagiata Venere, la calda luce solare che amalgama la figura e l’ambiente). D’altronde, non possono sfuggire i due inserti cittadini: a destra un folto gruppo di caseggiati attornia una cortina muraria che si erge in alto ed è scandita da numerose arcate cieche a tutto sesto; mentre a sinistra spicca una costruzione bassa e larga a pianta quadrangolare. Già questo tentativo di tradurre le immagini in parole è altamente significante. Senza volerlo (credo) mi sono ritrovato a descrivere due ‘emergenze’ di una delle più belle città d’Italia, vicina sia a Venezia che a Castelfranco: la città è Verona, e le due ‘emergenze’ il teatro romano e il palazzo del vescovado. Il fiume, naturalmente, è l’impetuoso Adige. La Dea si trova quindi esattamente di fronte all’ansa Nord dell’Adige.
Intanto, la rappresentazione di Venere addormentata, completamente immersa in un paesaggio splendido ma deserto, non può non suggerire un’altra direzione di ricerca. Venere sta sognando. E sta sognando Verona, la città dei poeti, Catullo e Dante.
Nel 1499 viene stampato a Venezia un romanzo illustrato, intitolato Hypnerotomachia Poliphili, ed attribuibile ad un Francesco Colonna, la cui identità è per lo meno incerta. È una sorta di poema in prosa, le ‘lasse’ o ‘stanze’, di varia ampiezza sono affiancate da numerose xilografie, di qualità così elevata da far pensare niente di meno che ad Andrea Mantegna[4]. Il sogno a cui allude il titolo, labirintico come il testo, è nella tradizione filosofica occidentale (da Platone a Lucrezio, da Aristotele a Cicerone)[5].
La storia si dipana per blocchi narrativi. Polifilo ama Polia, che non ricambia il suo amore. Un giorno, lui la incontra in un tempio e tenta di ammansirla. Invano, lei continua a respingerlo con durezza. Così, Polifilo muore. Polia, colpita da una freccia di Cupido, non solo si ravvede, ma si innamora anche lei perdutamente del giovane.
Lo snodo decisivo del racconto si ha nel settimo capitolo (ma attenzione, i singoli capitoli non sono numerati, bensì introdotti da un argumentum, un conciso riassunto). Polifilo riesce a sfuggire a un drago per ritrovarsi in una terra amena: in questa terra una «bellissima ninfa dormiva giacendo comodamente sopra un panno disteso che, abilmente avvolto, le si gonfiava sotto il capo in una sorta di guanciale». La ninfa è in realtà una statua, più bella della Venere di Prassitele. Inoltre, «plasmata con bulino e scalpello», è «a tal punto perfetta» da indurre a pensare «che fosse stata una creatura vivente in questo luogo pietrificata e trasformata in quel simulacro», II, pp. 89-90[6]. L’illustrazione che adorna il capitolo (I, 73) mostra la ninfa nuda e addormentata, nella stessa postura della Venere di Giorgione. Con una differenza capitale: la ninfa di Polifilo non è sola, accanto a lei vediamo due faunetti e soprattutto un satiro che le fa vento.
Nel quadro di Giorgione, tuttavia, vi è un dettaglio che sembra sopravvissuto dalla xilografia. Tra la figura di Venere ed il fondale paesaggistico e architettonico risalta un ceppo di poco meno di un metro. Il ceppo ricorda l’albero a cui il satiro ha agganciato il telo che serve per ventilare la ninfa. Giorgione ha fuso due immagini in una, della ninfa fontana e di Polia addormentata. Infatti, nel racconto della resurrezione di Polifilo si insinua una sorta di vuoto narrativo, tra la morte del giovane e il ritorno di Polia da lui: Polia «ritornò all’alba della mattina seguente a osservare, nel tempio profanato, l’assassinio di un’anima compiuto il giorno prima» (II, 469). Il vuoto narrativo coincide con il sonno di Polia e quindi con un sogno in cui è «forse istigata dagli dèi e ammonita per la sua malvagità».


[1] I 1-43.
[2] Cfr. Enciclopedia dantesca TRECCANI.
[3] Donna Fabia Fabron de Fabrian, immortale caricatura di Carlo Porta (Le poesie, introduzione di G. Barbarisi, a c. di C. Guarisco, II, pp. 600-607). La poesia, in sestine di endecasillabi rimati ABABCC. Riprende Lc, 218, 9-14. Chissà che capolavoro avrebbe suggerito a Daumier!
[4] F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, a c. di M. Ariani e M. Gabriele, due tomi, Adelphi, Milano 2006².
[5] M. Ariani, Il sogno filosofico, ibid., pp. XXXI-LXI.
[6] La bellezza di questa statua è «così sconvolgente» che alcuni uomini, divorati dal desiderio, non si trattennero dal violare «il simulacro». In apparenza semplicemente un po’ osé, questo particolare non può non suscitare il ricordo di un altro racconto, classico questa volta, e forse di Luciano, il racconto del giovane follemente innamorato dell’Afrodite Cnidia: [Pseudo]Luciano, [Descrizione dell’Afrodite di Cnido], da Amores, in Luciano di Samosata, Tutti gli scritti, introduzione, note e apparati di D. Fusaro, traduzione di L. Settembrini, Bompiani, Milano 2007.
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