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Manierismo - UTE Acquaviva delle Fonti

Anno Accadenico 2023/24
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Manierismo

Direttamente dai corsi
 
Nicola Troiani
 

 
COSCIENZA DELLA MODERNITÀ
 
 
 
Giuseppe Arcimboldo,
 ritratto di Rodolfo II in veste di Vertumno (1590),
 Stoccolma, Skoklosters Slott, Styrelsen
 
 
 

 
Acquaviva delle Fonti 2023
 
COSCIENZA DELLA MODERNITÀ
 
 
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    Per molto tempo abbiamo considerato il Manierismo un periodo alquanto umbratile della storia dell’arte, che va all’incirca dalla morte di Raffaello (1520) all’arrivo di Caravaggio a Roma (1590), un lungo e travagliato periodo in cui artisti ‘minori’ tendono a riprodurre nelle proprie opere la manus ovvero la maniera dei maggiori, da Leonardo a Raffaello a Michelangelo fino a Tiziano, che diventano quindi oggetti d’imitazione.
 
     In realtà, l’idea e la pratica dell’imitazione sono antichissime: Catullo imita Saffo e Callimaco, alla fine del V secolo fiorisce il manierismo fidiaco, rappresentato da artisti come Leocare e Briasside che non seppero mai ‒ o piuttosto non vollero ‒ uscire dagli stilemi codificati da Fidia.
 
    E, oltre tutto, l’evento più interessante, almeno a livello teorico, della seconda metà del 400 è la polemica circa l’imitazione (per Paolo Cortesi occorre imitare un solo autore; secondo il Poliziano bisogna invece spaziare, anche tra autori della bassa latinità): il che significa evidentemente che Manierismo e imitazione non sono fenomeni secondari della storia dell’arte e della letteratura, ma molto, molto di più, l’essenza vera e nascosta del produrre qualcosa che dia corpo e sostanza al sogno della bellezza.
 
 
* * *
 
 
    Vasari – è noto – non ha soltanto ‘registrato’ la storia, ma in qualche modo l’ha anche influenzata. Da questo punto di vista appare quindi scontata l’analogia con la critica del Novecento, o per lo meno con una delle correnti più vitali di questa, il purovisibilismo. Infatti, la teoria e la pratica critica del purovisibilismo hanno determinato il sorgere e l’affermarsi dell’astrattismo.
 
  Ma quando nasce la consapevolezza della modernità dell’arte come frattura rispetto all’arte del passato? Cioè, quando si apre la porta della modernità? Perché non basta che si producano nuove forme, è necessario sentirle, appunto, come nuove. La consapevolezza dello stacco si ha col riconoscimento del barocco quale periodo nuovo dell’arte ‘classica’, e questo si verifica proprio in concomitanza con la reazione (tardo neoclassicistica) al Barocco.
    E questa prima frattura ne comporta una seconda. Heinrich Wölfflin è ancora convinto che il Barocco sia il rovesciamento dell’Umanesimo e del Rinascimento. Ma ci si avvede ben presto che il tempo tra l’arte classica o rinascimentale e il Barocco è troppo lungo per non contenere qualcosa: e che questo qualcosa è il Manierismo!
 
     Una delle sequenze più celebri, meritamente, della storia del cinema è quella in cui una magnifica ragazza in compagnia del rispettabile direttore editoriale Richard Sherman (Tom Ewell) passa più volte sopra una grata della metropolitana di New York, visibilmente appagata dal fresco che le gonfia la gonna. Il film è The Seven Years Hitch, letteralmente: Il prurito dei sette anni, o del settimo anno, tradotto in italiano Quando la moglie è in vacanza. È un film del 1955, diretto da Billy Wilder (1906-2002). Ed è superfluo specificare che la ragazza (che nel film non ha nome) è Marilyn Monroe (Norma Jeane Mortenson Baker, 1926-1962).
 
    Circa trenta anni dopo (ventinove per l’esattezza) Gene Wilder dirige e interpreta un altro capolavoro, The Woman in Red, in cui il protagonista assiste ad una scena analoga, o meglio, chiaramente ispirata alla sequenza più antica. In questo film la ragazza è una modella, Charlotte (Kelly LeBrock), che, nel passare sopra un’altra grata, in un garage aziendale, avverte un flusso d’aria fresca che le solleva l’abito, quasi denudandola. In un primo momento, lei si ricopre e si allontana, ma poi, attratta, vi torna sopra e, credendo di non essere vista da nessuno, inizia un piacevole ballo-spogliarello, ritmato dalle note dolenti e delicate di quella specie di salmo in jazz che è I Just Called to Say I Love You, di Stevie Wonder (al tema musicale è assegnato un Oscar e un Golden Globe). In realtà, ad ammirarla, a bordo della propria vettura, e ad innamorarsene perdutamente, è Teddy Pierce, un attempato pubblicitario (Gene Wilder in persona).
 
    L’accostamento di questi due spezzoni è forse la migliore lezione che si possa tenere sul Manierismo. Gene Wilder (1933-2016) ripete Billy Wilder (nessuna parentela, Gene Wilder è lo pseudonimo di Jerome Silberman, quanto a Billy è Samuel Wilder, austriaco [si prega di pronunziare correttamente]). Ma la ripetizione, o il rifacimento, è altrettanto valido quanto il modello, se non di più. Sono i due poli tra i quali oscilla l’arte della maniera: da un lato il richiamarsi ad un modello inarrivabile, dall’altro tentare di superarlo, e spesso, riuscirci. Infatti, la scena di «Billy» Wilder è diventata un classico, grazie sostanzialmente a Marilyn, nonché alla bellezza ‘prassitelica’, statuaria e morbida del suo corpo. La scena di Gene Wilder invece, proprio perché è successiva, è più intellettualistica, più carica di sensi, significati, non immediatamente percepibili. Nel film del 1984 figurano due dettagli che non compaiono nel film del 1955. La macchina, a bordo della quale Teddy Pierce assiste alla performance di Charlotte (l’iniziale stupore si muta subito in estatico rapimento) è una berlina anonima come il suo proprietario. Simpatico è poi il goffo tentativo di Teddy di imitare a sua volta Charlotte. E ancora: il film è il remake di un altro film, non molto fortunato, uscito in Francia nel 1976, Un éléphant ça trompe énormément, diretto da Yves Robert, il cui protagonista perde la testa per una bella modella di nome appunto Charlotte.
 
  
 
    Sul Manierismo – è chiaro – esiste una letteratura sterminata, ed il fenomeno appare tanto più stravagante, quanto più ci accorgiamo che esso, in realtà, non è mai esistito (Del Bravo[1]). Tanto per cominciare, a differenza di tutti gli altri blocchi della storia europea, il Manierismo sembra un evento ristretto a poche aree linguistiche (Firenze e Roma, Venezia, Bologna, Napoli, Mantova), al punto che parlare di Maniera «italiana» (Briganti) è quasi tautologico; per contro, i suoi limiti temporali sono curiosamente molto laschi, sicché si avverte la necessità di un’ulteriore periodizzazione all’interno di esso[2]. Inoltre, è sempre possibile trasformare del tutto il Manierismo in un imprecisato ‘antirinascimento’ (Battisti[3]): la stessa intercambiabilità delle etichette spinge a pensare che il contenuto sia per lo meno cangiante, o addirittura vago. Ad una prima occhiata, comunque, il Manierismo esiste nella letteratura sia come Der Manierismus, che come Mannerism, nel senso che ne è stata tentata una sistemazione storicistica (Weise, Hauser), e, al polo opposto, una lettura empirica (Shearman): per Weise[4] il Manierismo è lo sviluppo del Gotico, come il Barocco lo è del Rinascimento; del Gotico il Manierismo conserva il tratto ascetico ed intellettualistico, come il Barocco accentua il vitalismo rinascimentale. Nel 1964 uscì a Monaco il manuale del Hauser, prontamente tradotto in italiano[5]: si tratta di un grosso studio di tutto il Manierismo in quanto crisi del Rinascimento e origine dell’arte moderna, nel quale si parte dalle svolte del pensiero per arrivare a dissolvere la nozione di Manierismo in un’analisi – impressionistica e convenzionale – della cultura contemporanea fino a Baudelaire ecc. Gran parte del grigiore di questo libro trova riscontro nel conformismo dei primi anni sessanta, durante i quali fu scritto e pubblicato; ed è significativo il percorso di Shearman, che dal didattico e divulgativo Mannerism del 1967 perviene nel 1983 alla raccolta, espressamente allestita per il lettore italiano da Alessandro Nova, dei sette testi di Funzione e illusione, di cui soltanto uno, il saggio sulla Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, è anteriore al 1968 (è infatti del 1961)[6].
 
    «In the term ‘Mannerism’ – rileva saggiamente nel 1965 – there is a trap, concealed in the word itself. ‘Mannerism’ appears among purely descriptive terms, ‘Gothic’, ‘Renaissance’ and ‘Baroque’, and it alone is an ‘ism’. […] The problem of defining the term Mannerism is first of all a problem of method»[7]. D’altronde «Mannerist art should not be identified with mannered art, for while the first is always to some extent mannered the second is not always Mannerist, since it may be anything but graceful and accomplished»[8]. Sono osservazioni problematiche, che tuttavia non impediscono allo studioso di dichiarare: «My conviction is that Mannerist art is capable of standing on its own feet»[9].
 
    Perciò è con un lieto stupore che si riscontra nella raccolta del 1983 l’audace accostamento di Raffaello al Correggio e al Pontormo. Del Correggio e del Pontormo sono studiati rispettivamente l’«Illusionism» e l’«Altarpiece» presente in Santa Felicita[10]. Nel 1967 un piccolo editore di Bari pubblicò una raccolta di Saggi di stilistica romanza di Helmut Hatzfeld. Il libro passò quasi del tutto inosservato tra i ‘dotti’ e fu usato come riempitivo di programmi universitari altrimenti piuttosto lievi. Ma in realtà era un esempio splendido di come un metodo già allora invecchiato, e comunque piuttosto discutibile, potesse tuttavia dare luogo ad analisi di desueta finezza. Pensare alla lettura comparata di Lusiadas X 54-89 / Gerusalemme XV 55 –XVI 58[11]; o alla interpretazione della «“Ballade”, del secolo decimoquinto, “que Villon feit a la requeste de sa mère pour prier Notre Dame”»[12]; oppure ancora al bellissimo saggio sullo «stile di un’epoca: lo stile gotico in letteratura»[13]. Il libro è inoltre coevo del ben più noto e agguerrito Ut pictura poesis. A Humanistic Theory of Paiting, New York, però arrivato in Italia (Sansoni) soltanto nel 1974[14]. Di questi stessi anni è poi la voce Maniera e Manieristi dell’EUA[15], completa ed efficace. Ma solo dopo un decennio, e grazie ad Antonio Pinelli la questione sarà riesaminata, non per trovarvi inedite quanto improbabili angolazioni o periodizzazioni (Battisti, che tuttavia dipende da Friedländer; Briganti, che in ogni caso lavora sul già noto), ma per portare alla luce le radici ideologiche dell’uso del concetto di «Maniera» nella storiografia, a partire ovviamente da Vasari[16].
 
Leopardi e il Manierismo
  
    «È curioso – nota Leopardi nello Zibaldone, 15 agosto 1820 – che si riprenda (dagli stranieri particolarmente) Michelangelo per aver troppo voluto dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per regola di nasconder sempre questa scienza nell’arte dello scolpire o del dipingere, ed esser meglio ignorarla affatto che ostentarla (come si dice, mi pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla); e che frattanto gli stranieri massimamente non sieno mai così contenti come quando hanno inzeppato le loro poesie di tecnicismi, di formole, di nozioni astratte e metafisiche, di psicologia, d’ideologia, di storia naturale, di scienza di viaggi, di geografia, di politica, e d’erudizione, scienza, arte, mestiero d’ogni sorta. E mentre non vogliono l’erudizione antica, lodano e abusano vituperosamente della moderna»[17]. Intanto, il bersaglio polemico di Leopardi è l’area variegata e dinamica dell’antiromanticismo europeo: nel 1820 Leopardi, ancora a pezzi per la mancata evasione romana, subisce un altro colpo, il blocco, da parte della censura paterna, della pubblicazione di due canzoni (Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo). Inoltre il giovane Leopardi è da tre anni amico di un ‘romantico’ come Giordani, già reduce dalla polemica sull’articolo della Stäel del 1816, e che Monaldo ovviamente non può soffrire[18]. Insomma, è proprio il 1820 l’anno in cui si acuisce il contrasto tra Giacomo e Monaldo e tutta la ‘cultura’ benpensante e puristica che costui rappresenta agli occhi di suo figlio. Una riprova – se ce ne fosse bisogno – è data dalle bellissime anticruscanti Annotazioni alle dieci canzoni pubblicate nell’edizione del 1824, a cui si possono aggiungere, come sintomi di un rifiuto esteso a tutto il veteroilluminismo lo sprezzo del «computar» nella canzone al Mai (v. 149) e la tirata anticanoviana, o più precisamente diretta contro il neoclassicismo papalino del Missirini, tenuta in casa del monsignore durante il viaggio romano[19]. Ebbene, i classicisti, dice Leopardi, esaltano Raffaello e deprimono Michelangelo perché secondo loro, a differenza di Raffaello, Michelangelo non nasconde la «sua scienza», e non s’accorgono che le loro poesie sono farcite proprio dei cascami di quella «scienza».
    Tra l’altro, applicando al binomio Michelangelo-Raffaello la critica di Galileo al Tasso, più di cento anni in anticipo su Panofsky[20], e rovesciandone con decisione il giudizio, Leopardi fornisce una risposta, benché indiretta, alla domanda sull’origine del Manierismo nella storiografia moderna, che va dunque intravista nel neoclassicismo di ritorno della Restaurazione. Ma forse c’è di più: nel ’16, nella polemica suscitata dall’articolo di Madame de Stäel intervenne, tra gli altri, Pietro Borsieri (1786-1852)[21], aristocratico milanese, ispiratore prima del «Bersagliere», poi del «Conciliatore», tra il 1836 e il 1840 esule tra l’America, la Francia e i Paesi Bassi, animatore del ’48, e finalmente, dopo Custoza, ancora esule «fino alla morte che lo liberò nel 1852»[22]. Nel secondo capitolo delle sue Avventure letterarie, dopo aver demolito la fama del «sig. Mai», immeritata, trattandosi d’un personaggio avente dalla sua soltanto «la fortuna di frugare in una biblioteca in cui tutti non frugano», vien fuori con un’osservazione sorprendente: «Quando fiorivano Michelangelo e Raffaello, coprivano essi col raggio della loro gloria il nome pur chiaro d’altri artisti che in epoca di decadenza sarebbero riputati eccellenti, e che ora infatti veneriamo come grandi maestri»[23].
 
    Borsieri, come si vede, aveva messo a fuoco egregiamente il problema: il Manierismo non è nell’irrilevanza degli altri «artisti» contemporanei di Raffaello e Michelangelo, bensì nell’eccessiva statura di questi due, per cui l’intera questione sembra ridursi a un fenomeno ottico, o, se si preferisce, il Manierismo cessa d’essere un assoluto storico per diventare un mero relativo storiografico: ed infine Borsieri – la cui statura umana e intellettuale è stata giustamente rilevata da Michele Dell’Aquila – fornisce una ragione del ritorno di fiamma del Manierismo nell’Ottocento romantico, la sensazione di appartenere ad un’«epoca di decadenza», sensazione che spinge verso il recupero nell’arte del passato di altre figure di un’analoga «decadenza». L’ottica di Leopardi è leggermente, e insieme profondamente diversa: quattro anni dopo il saggio di Borsieri – che non poteva ignorare, data anche l’affinità che doveva sentire con un intellettuale che aveva duramente attaccato la propensione degli Italiani all’«antiquaria» (tra un po’, nel viaggio a Roma, conoscerà e apprezzerà, ricambiatone largamente, il Niebhur[24]: in quello stesso viaggio si meraviglierà dell’ignoranza linguistica e filologica degli eruditi italiani[25]) – Leopardi ne sposta decisamente la prospettiva: ignora il Manierismo come pulviscolo della storia del medio Cinquecento, e si sofferma esclusivamente su due icone del Rinascimento, in relazione alle quali fissa l’articolarsi della storia in due filoni distinti, il classicismo (di Raffaello) e l’anticlassicismo (di Michelangelo), polarità che gli deriva forse dal Castiglione, libro I del Cortegiano, in cui si contrappongono la scultura di Michelangelo e la pittura di Raffaello, brano trascritto nella Crestomazia della prosa italiana[26]. D’altronde, ma proprio grazie a questa reductio, egli sembra introdurre un’altra e più sottile correzione, tendente a capitalizzare in Michelangelo il tentativo, a tratti disperato, di affermare la propria individualità (la propria «scienza») anche contro la norma, o soprattutto contro di essa. Nella Crestomazia della prosa italiana figura un brano del Baldinucci estratto dal Vocabolario toscano dell’arte del disegno, ed inserito nella sezione Definizioni e distinzioni, che chiarisce di fatto quale nozione, metodica, non storica, potesse avere Leopardi di «manierismo», in quanto forzatura del proprio ‘stile’: «Maniera intendesi per quel modo che regolarmente tiene in particolare qualsivoglia artefice nell’operar suo. Onde rendesi assai difficile il trovare un’opra d’un maestro (tutto che diversa da altra dello stesso) che non dia alcun segno nella maniera, di esser di sua mano e non d’altri. Il che porta per necessità, ancora ne’ maestri singularissimi, una non so qual lontananza dall’intesa imitazione del vero e naturale; che è tanta, quanto è quello che essi con la maniera vi pongono del proprio. Da questa radical parola, maniera, ne viene ammanierato; che dicesi di quell’opre nelle quali l’artefice discostandosi molto dal vero, tutto tira al proprio modo di fare tanto nelle figure umane, quanto negli animali, nelle piante, ne’ panni e altre cose. Le quali in tal caso potranno bene apparir facilmente e francamente fatte; ma non saranno mai buone pitture, sculture o architetture, né avranno fra di loro intera varietà. Ed è vizio questo, tanto universale, che abbraccia, ove più ove meno, la maggior parte di tutti gli artefici»[27].
 
    Il brano è leggermente affine, per contenuto, a un passo di Giampietro Zanotti tratto da Avvertimenti per lo incamminamento di un giovane alla pittura, incluso nella sezione Filologia, brano nel quale la «sgraziataggine» manieristica, in quanto ‘naturale’, è preferita all’«affettazione» dei classicisti: «Io non loderò giammai la sgraziataggine; ma a fronte dell’affettazione, meno me ne dorrei. Sono duo estremi; ma l’uno, se si può dire, peggiore dell’altro. Finalmente la sgraziataggine si debbe attribuire a colpa della natura, che al pittore non ha somministrata quella idea di vera grazia, la qual d’altronde che da lei non può derivare; ma l’affettazione, tutta a colpa del pittore si può riferire, da che egli è quello che, con soverchia e male spesa fatica, la cerca e la procura»[28]: per Baldesar Castiglione (che Leopardi riproduce a distanza di soli due altri brani, di Eustachio Zanotti, e assieme ad altri, di contenuto ‘artistico’, di personaggi in qualche modo legati alle arti figurative, come il figlio dell’Adriani, Marcello come il nonno, qui presentato con una traduzione da Plutarco, e ricorrente nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nonché nel preambolo al volgarizzamento delle Operette morali di Isocrate[29]) l’alternativa era stata tra sprezzatura ed affettazione, cioè del tutto interna all’estetica classicistica.
 
     A produrre l’equivoco del Manierismo come età e se stante (un’altra!) nella storia dell’arte e della letteratura – equivoco in cui non cadde Wölfflin, troppo al di sopra della povera cronaca per accorgersi solo della forte distanza temporale che c’è tra il Rinascimento come «cresta sottile» e il suo ‘rovesciamento’ nel Barocco[30] – sono stati, mi pare, due fattori. Da un lato, il trainante esempio di due recenti scoperte storiografiche, della preistoria[31], e, prima ancora, dell’Ellenismo[32]. Dall’altro l’oggettiva lunghezza del tempo che passa tra i due opposti picchi della storia, appunto Rinascimento e Barocco, un tempo anonimo, pertanto sostanzialmente ‘vuoto’, da definire e riempire di personaggi.
 


  
 
 
«Maniera», «mainera»
  
    «Maniera»: nel grande Dizionario della Lingua italiana UTET la voce occupa, con alcune parole derivate, ben nove pagine su tre colonne, che coprono un arco temporale smisurato, da Bonagiunta a Gramsci. Il vocabolo inglese manner è un prestito del francese manière, al pari dei tedeschi manier (XVII secolo), maniere (XIII); e francesismi sono i portoghesi maniera, nonché l’antico spagnolo manera[33]. «Maniera» è quindi una parola ‘universale’, il cui spettro semantico è amplissimo, una vox media insomma, di per sé vuota ed incapace di irradiare di senso la frase che la contiene, ma che al contrario deve riceverlo proprio da questa, e da null’altro. Vasari, intanto, a differenza di altri scrittori (Adriani padre), usa il vocabolo soltanto in senso artistico, come traspare dai passi allineati nel Dizionario[34].
    Schematizzando, sono ben quattro, raggruppabili in due categorie, i principali significati che assume il termine nel testo vasariano: nella sfera dell’individualità, «maniera» come stile personale vs «maniera» come ‘ripetizione’ dello stile di un altro artista; storicamente, «bella» maniera vs maniera «secca e cruda e tagliente»: lo schema è formulato sul contributo di Antonio Pinelli, più volte ricordato. Nell’una o nell’altra accezione, il termine ricorre in molte delle Vite, e ne sostiene i relativi giudizi; ma è nel terzo proemio, in entrambe le redazioni, che questi significati compaiono tutti insieme (gli artefici della seconda età aggiunsero «alle cose de’ primi regola, ordine, misura, disegno, maniera», e quelli della terza fecero in modo che «la maniera venne poi la più bella»; i primi furono svantaggiati dal fatto «che lo studio insecchisce la maniera», ma le scoperte archeologiche contribuirono a «levar via una certa maniera secca e cruda e tagliente»[35]).
 
    D’altronde, è proprio nel ventennio tra la «torrentiniana» e la «giuntina» che a Firenze la figura sociale dell’artista subisce una profonda trasformazione: l’istituzione – ad opera principalmente dello stesso Vasari – dell’Accademia degli «artefici del disegno» da un lato promuoveva gli artisti al rango di accademici, e dunque di ‘umanisti’, stante il significato di «umanista» interno a quello, prearcadico, di «accademia»; dall’altro li livellava, assieme ai ‘veri’ dotti, i letterati, nel ruolo di funzionari. Pertanto, riesce ancora più strano il fatto che proprio questi artisti siano stati qualificati come artisti della «maniera»: nella parola – Vasari lo sa benissimo, abituato com’è ad impiegarle in modo non univoco, e quindi anche ‘tecnico’ – è irrimediabilmente contenuta l’immagine della manualità. In realtà, «maniera» è voce dotta: Bonagiunta Orbicciani, rimatore lucchese del XIII secolo, vicino a Guittone, la usa in un sonetto antiguinicelliano:
 
 «Voi che avete mutata la mainera
 de li piacenti ditti dell’amore
 de la forma, dell’esser, là dov’era,
 per avansare ogn’altro trovatore;
 avete fatto come la lumera,
 ch’a lo scuro partito dà sprendore,
 ma no quine ove luce l’alta spera,
 la quale avanza e passa di chiarore.
 E voi passat’ogn’om di sottigliansa;
 e non si trov’alcun che ben ispogna,
 tant’é iscura vostra parlatura.
 Ed è tenuta gran dissimigliansa,
 ancor che ’1 senno vegna da Bologna,
 traier canson per forsa di scrittura»[36].

    Nel De vulgari eloquentia Bonagiunta da Lucca, assieme a Gallo Pisano, Mino Mocato Senese, Brunetto Fiorentino e, ovviamente, Guittone d’Arezzo, è uno dei toscani «qui, propter amentiam suam infroniti, titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur»[37]. Dante lo incontra nel sesto cerchio del Purgatorio, a purgare con ferrea «dïeta» i peccati di gola commessi nella vita mortale[38]. Bonagiunta, però, non è un «ghiottone» qualunque; il suo sonetto contiene forse la più antica attestazione dell’uso ‘tecnico’, nella letteratura, di «maniera», e per di più in un significato del tutto ‘letterario’, e per ciò stesso ‘nobile’: nel tempo la parola conserva gran parte della sua ‘nobiltà’ d’origine, per cui la sua attribuzione al mondo delle arti figurative è in linea con l’accresciuta importanza di questo nel tardo Cinquecento; e d’altro canto non può sfuggire che l’accezione generalmente limitativa della «maniera» come arte intellettualistica ha un precedente proprio nella veduta di Bonagiunta, e d’altri guittoniani, della poesia del Guinicelli e in senso lato di tutto il Dolce Stil Novo[39].
 
 
[1] È in ogni caso il ‘messaggio’ di Bellezza e pensiero, Le Lettere, Firenze 1997, nonché del precedente, Le risposte dell’arte, Sansoni, Firenze 1985, raccolte in cui le singole letture – empiriche – scandiscono il tempo storico, ma non nel senso che s’inseriscono in un disegno preesistente e taciuto, bensì come scorci della memoria che s’infilano l’uno nell’altro, a ri-creare il divenire di un mondo: per questo nei due libri non figurano partizioni estrinseche, i saggi si susseguono continuativamente dal passato al presente, come un ritorno alla «coscienza» che ne ha promosso, con le sue ‘domande’, il lento ma irrequieto dipanarsi. Del Bravo, poi, ha il merito di aver preso sul serio – era ora – il Cellini (Bellezza e pensiero, cit., pp. 145-154).

[2] G. Briganti, La maniera italiana, Sansoni, Firenze 1985 (1ª ed., Roma 1961).
 
[3] E. Battisti, L’antirinascimento. Con un’appendice di testi inediti, Garzanti, Milano 1982, 2 voll.

[4] G. Weise, Il Manierismo. Bilancio critico del problema stilistico e culturale, Olschki, Firenze 1971 e Manierismo e letteratura, Olschki, Firenze 1976 (i due volumi formano un corpo unico).
 
[5] A. Hauser, Il Manierismo. La crisi del Rinascimento e l’origine dell’arte moderna (Der Manierismus. Die Krise der Renaissance und der modernen Kunst), Einaudi, Torino 1965 e 1988, trad. di S. e A. Bovero.
 
[6] J. Shearman, Mannerism, Pelikan Books, London, 1967 e Penguin Books, London, 1990 → Manierismo, trad. it. dell’ed. «ampliata dall’autore» a c. di M. Collareta, SPES, Forense 1983; Funzione e illusione. Raffaello Pontormo Correggio, Il Saggiatore, Milano 1983.
 
[7] Mannerism, London, Penguin Books, pp. 15-16.
 
[8] ibid., p. 22.

[9] ibid., p. 15.

[10] Funzione e illusione, cit.
 
[11] H. Hatzfeld, Saggi di stilistica romanza, Adriatica, Bari 1967, pp. 254-276.
 
[12] ibid., pp. 167-169.
 
[13] ibid., pp. 238-253.

[14] R. W. Lee, Ut pictura poesis. La teoria umanistica della pittura, Sansoni, Firenze 1974: si tratta di un ausilio indispensabile, che giustamente l’autore definisce «a carattere interdisciplinare» (p. VII).op. cit.
 
[15] La voce, di L. Becherucci, è articolata in due parti, fortuna critica, racconto storico.
 
[16] A. Pinelli, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Einaudi, Torino 1993, lieve rifacimento di La maniera: definizione di campo e modelli di lettura, in AA. VV., Storia dell’arte italiana. Dal Cinquecento all’Ottocento, I. Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1981, pp. 87-182. Alle pp. 94-114 dell’edizione 1993 e 124-138 dell’edizione 1982 figura un’eccellente analisi dell’intero terzo proemio.
 
[17] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori, Milano 1972, 1, p. 165. Nel brano Leopardi parla «massimamente» di scrittori «stranieri» e l’allusione è volutamente vaga, in quanto gli serve per istituire un rapporto simmetrico tra ‘raffaellismo’ e ‘affettazione’ moderna. Il pensiero, comunque, è ripreso alla p. 238, al 1º capoverso, del manoscritto (rinvio esplicito dell’Autore). In questo brano, peraltro, non è difficile cogliere il bersaglio polemico poetico: si tratta probabilmente di Byron, che Leopardi critica tra le pp. 223-226 del manoscritto (= 173 dell’edizione citata), chiudendo il brano, vergato il 24 agosto 1820, con il puntuale rinvio a «p. 238, pensiero 1». Più complicato sarà l’individuare i raffaelleschi, anche perché tra Sette e Ottocento la fortuna di Raffaello è in tutta Europa grandissima, e di gran lunga maggiore di quella di Michelangelo (U. Kultermann, Storia della storia dell’arte, Neri Pozza, Vicenza 1997, pp. 39-ss., nonché J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 697-702 e 635-637 per Du Fresnoy, Félibien, De Piles). Specialmente a questi ultimi, probabilmente, si riferisce Leopardi: sono «stranieri» e raffaelleschi ad oltranza, e conosciuti abbastanza da non richiedere, per una citazione allusiva, una lettura particolare. Alla fine del proprio Cours de peinture par principes, Parigi 1708, Roger De Piles accluse la celebre o addirittura «famigerata» (Schlosser Magnino, p. 633) Balance de Peintres, in cui Raffaello è primo e nel disegno e nell’espressione, e Michelangelo ultimo nel colore. Il Cours fu pubblicato in molte lingue europee (in inglese, in tedesco, in olandese, in italiano) e ristampato in lingua originale per tutto il secolo XVIII. Su questo autore cf. anche L. Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi, Torino 2000, pp. 143-146. Comunque, il primo a parlare di «manierismo», per lo meno in Italia, fu forse il Lanzi, ai primi dell’Ottocento; «manieristi» è invece del Salvini. È quanto fanno pensare Battisti-Alessio, Dizionario etimologico italiano, Barbèra, Firenze 1975, III, p. 2349. Nel GDLI UTET Lanzi è citato a p. 682 sotto la voce, appunto, Manierismo.
 
[18] M. Saponaro, Leopardi, Garzanti, Milano 1945, pp. 112-113 e 59-ss. Le due canzoni «incriminate» in G. Leopardi, Opere minori approvate, I. Poesie, a c. di F. Moroncini, Cappelli, Bologna 1931, pp. 231-245 e 249-260. Cf. anche R. Di Ferdinando, Un misfatto pesarese che commosse Giacomo Leopardi, «Realtà Nuova», LXV, 1, gennaio-febbraio 2000, pp. 25-32 (puntigliosa ricostruzione della vicenda che spinse il Leopardi a scrivere la seconda canzone, quella, probabilmente, che col suo solo titolo, mise in ebollizione il povero Monaldo).
 
[19] G. Leopardi, Canti, Rizzoli, Milano 1953², a c. di L. Crescini, pp. 169-198. Quanto al Canova, Leopardi lo cita con finta deferenza in uno dei manoscritti preparatori della Lettera al Giordani sopra il Frontone del Mai, in G. Leopardi, Scritti Filologici (1817-1832), a c. di G. Pacella e S. Timpanaro, Le Monnier, Firenze 1969, p. 81 rr. 67-70, steso probabilmente nei primi mesi del 1818 (p. 47). La narrazione dell’episodio è in M. Saponaro, op. cit., pp. 148-149.
 
[20] E. Panofsky, Galileo critico delle arti (Galileo as a Critic of the Arts), a c. di M. C. Mazzi, Cluva, Venezia 1985 ← 1954. Il testo fu scritto a Princeton, quando Panofsky era collega di Albert Einstein: cf., tra gli altri, M. A. Holly, Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte, Jaca Book, Milano 1991, pp. 188-190.

[21] M. Dell’Aquila, Primo Romanticismo italiano, Adriatica, Bari 1976, pp. 162, nota, 167 e 174. Cf. anche G. Leopardi, Discorso d’un italiano intorno alla poesia romantica ecc., a c. di G. Mazzei, con saggio introduttivo di F. Flora, Cappelli, Bologna s.d. [1957].
 
[22] M. Dell’Aquila, op. cit., p. 162, nota.
 
[23] ibid., pp. 167 e 174.
 
[24] M. Saponaro, op. cit., pp. 150-151 et alii.
 
[25] S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Laterza, Bari 1978² (1ª ed. Le Monnier, Firenze 1955), pp. 63-ss. La lettera a Monaldo, 9 dicembre 1822, citata da Timpanaro a p. 64, può leggersi in G. Leopardi, Epistolario, 1820-1823, 2º, a c. di F. Moroncini, Le Monnier, Firenze 1935, pp. 196-199. Lo stesso giorno (ibid., p. 199) G. B. Canova, abate e fratello di Antonio, lo ringrazia per le Canzoni da lui «dettate», e accenna all’«ottimo» abate Missirini come ad estimatore della «filosofia che regna in tutte queste Canzoni e prose»!
 
[26] G. Leopardi, Crestomazia italiana. La Prosa, a c. di G. Bollati, Einaudi, Torino 1968, pp. 457-459. È inspiegabile l’assenza di Vasari in questa Crestomazia, così vicina al protostoricismo vasariano: «La importanza di molti di questi passi dipende per non piccola parte dal tempo in cui furono scritti», avverte Leopardi, Ai lettori, p. 4.
 
[27] ibid., p. 150. Leopardi riproduce, ammodernandola nella grafia, la voce del detto Vocabolario, Firenze, 1681, rist. anast. a c. di S. Parodi, SPES, Firenze s.d. Subito successive a questa voce ne appaiono altre quindici, specifiche, da Maniera cruda a Manierona.
 
[28] ibid., p. 517.

[29] ibid., pp. 521-522 (= Castiglione), pp. 355-356 (= Adriani).
 
[30] Concetti fondamentali della storia dell’arte, Longanesi, Milano 1984, tr. di R. Paoli, presentazione di G. Nicco Fasola (l’originale, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe. Das Problem der Stilentwicklung in der neueren Kunst uscì a Monaco 1915).
 
[31] G. Daniel, L’idea della preistoria, Sansoni, Firenze 1968.
 
[32] L. Canfora, Ellenismo, Laterza, Roma-Bari 1987.
 
[33] GDLI UTET, IX, nonché Battisti-Alessio, op. cit. e Migliorini-Duro, op. cit.
 
[34] GDLI UTET, IX, commi 18/22.
 
[35]  G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a c. di L. Bellosi e A. Rossi, presentazione di G. Previtali, Einaudi, Torino 198, «torrentiniana», Firenze 1550, pp. 539-544; Le opere, presentazione di P. Barocchi, Firenze 1981, tomi I-VII, ristampa dell’edizione curata da G. Milanesi, Sansoni, Firenze 1906 della «giuntina», Firenze 1568, IV, pp. 7-15.

[36] Lo riproduco da C. Cordiè – M. Sansone, Antologia della letteratura italiana, 1, Loescher, Torino 1966, pp. 33-34. La lezione «possat’» del v. 9 è corretta in «passat’» in nota. Cf. anche Lirici del 200, a c. di C. Salinari, UTET, Torino 1951, p. 318. La tavola tra le pp. 304 e 305 riproduce il frontespizio della «prima raccolta a stampa di antiche rime toscane (Firenze, Giunti 1527)». Per Bonagiunta Poeti del Duecento. Poesia cortese toscana e settentrionale, a c. di G. Contini, Einaudi, Torino 1976 (← Ricciardi, Milano-Napoli 1960), I, pp. 71-73 e II, p. 351.
 
[37] VE, I, XIII (la citazione da Tutte le opere, a c. di L. Blasucci, Sansoni, Firenze 1965, p. 218).
 
[38] ibid., p. 580 (Purg, XXIV, 19-20).

[39] Sull’‘intellettualismo’ stilnovistico M. Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Einaudi, Torino 1983.
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